M.V.M.

Creato il
17/5/99.


Ancora su Juan Carlos I:

Juan Carlos quel Re troppo amato, articolo di fine 1997.


Alla corte di Re Juan Carlos

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

La Repubblica, 25 / 5 / 1996.


Il seguente scritto è la traduzione di un estratto del libro Un polaco en la corte del rey Juan Carlos, pubblicato in Spagna nel 1996. Altre informazioni su quel libro.
Esiste la solida tradizione di non riferire pubblicamente sulle interviste realizzate a Don Juan Carlos. Anzi, Don Juan Carlos non concede interviste, ma udienze. Di seguito si sono virgolettate le parole del Re per maggiore chiarezza.

Il visconte di Almansa mantiene il suo impegno epistolare e mi fissa un appuntamento al Palacio de la Zarzuela per il 27 febbraio "...informandoLa che l'accesso a palazzo si effettua da Somontes, sulla stradale verso El Pardo".
    Arrivo a Madrid con suffciente anticipo per ossequiare la puntualità di un Re e gironzolo per le strade di quello che potrebbe ormai essere il mio quartiere: Alcalá, Marqués de Cubas, carrera de San Jerónimo, plaza de las Cortes, calle del Prado, plaza de Santa Ana..., e nel passare davanti all'Hotel Suecia mi imbatto in Carmen Posadas che avanza, avanza sempre lungo il marciapiede, questa volta a salutare il nostro incontro imprevisto con la timidezza aggiunta che noi timidi ostentiamo in strada. Noi timidi abbiamo bisogno di spazi chiusi e di un tavolo, non troppo grande, meglio se ricoperto da una lunga tovaglia, per non mostrare le gambe e far riposare le braccia. Mi scolo un whisky per evitare di presentarmi alla Zarzuela con la sindrome dell'ispettore Colombo. Niente Colombo e niente Carvalho. E banalmente mi concedo un taxi e strada facendo l'intero scenario della mia piú immediata memoria viene occupato dalla fotografia generazionale scattata a palazzo, tempo addietro, da Schoemmer.
    Quel 16 dicembre del 1991 il Re salutó uno ad uno, me compreso, tutti i componenti di quel gruppo di cinquantenni, e a ciascuno di noi dedicó il commento che gli parve piú adeguato. A me toccó quello sul Pce (Partito comunista spagnolo n.d.t.) che in quei giorni aveva qualche problema con la sua direzione: «Montalbán, che ne pensa di quel che sta accadendo nel Partito?» Mi sorprese che il Re di Spagna domandasse proprio a me sul Pce e mi venne in mente una risposta che esprimeva la mia sorpresa ma che poté suonare di svogliatezza: «A Lei e a me interessa molto quel che accade all'interno del Pce?». In realtà gli stavo dicendo: «Come mai Lei si interessa di quel che puó capitare al Pce?», e fu questo che capí, per fortuna, il re, perché subito dopo mi fece una lezione sull'ecosistema politico spagnolo e l'importantissimo ruolo interpretato dal Pce pur essendo un partito cosí minoritario.

Per certi versi io sono cresciuto insieme a quest'uomo, e la prima immagine che ricordo di lui è una immagine in rotocalco marrone, sulla prima pagina di un quotidiano barcellonese della mia infanzia, che mostrava la foto del suo arrivo in Spagna per mettersi sotto la tutela di Franco e sperimentare la rieducazione di un Borbone, figlio di Borboni, esitante tra l'afranchismo e il franchismo per tornare infine all'afranchismo.

    Lo ricordo come un bambino biondissimo, con i capelli un po' ondulati, occhi grandissimi e pieni di sensibilità, ma forse questa sensibilità era accentuata dalle occhiaie che invitavano a domandargli: «Che ti succede, ragazzino?» Mia madre disse qualcosa di importante in quell'occasione, soprattutto perché a dirlo era una repubblicana, catalanista nonostante le sue origini meridionali, una specie di Esquerra Republicana (Sinistra Repubblicana) e Cnt (Confederazione Nazionale del Lavoro), vedova di un soldato della Fai (Federazione Anarchica Iberica) annegato in un fiume appena iniziata la guerra, poi compagna di un militante del Psuc (Partito Socialista Unificato di Catalogna) che languí a lungo in galera e madre di futura carne da galera. «Poverino, cosí lontano dalla mamma e cosí vicino a Franco».
    Negli anni che seguirono ho partecipato alle posizioni della sinistra repubblicana di fronte a un Principe non meno erede di Franco che della dinastia borbonica, ma non ho mai smesso di considerare che Don Juan Carlos aveva pagato un alto prezzo, e duro, per la propria fedeltà alla ragione dinastica: vivere l'intera infanzia e l'intera adolescenza nella caverna franchista, anche se di tanto in tanto gli si concedeva di conoscere altri bambini, alcuni dell'intelligenza di un José Luis Leal, o intraprendenti come un Manuel Prado Colón de Carvajal, fatto da intendere come un generoso sforzo di Franco perché il futuro Re non si vedesse circondato soltanto da militari e cattedratici legati alla verità ufficiale.
    Nel mio romanzo Sabotaggio olimpico ho immaginato il Re immancabilmente munito di un manuale di Formazione Professionale Permanente dei Re, fantasia che ho convalidato ogni qualvolta mi è stato domandato, in Spagna o all'estero, che cosa pensassi sul Re o sulla famiglia reale: «È un eccellente professionista. Anche la famiglia lo è. È composta da professionisti eccellenti». E questo perchè essere re, uno dei pochi rimasti sull'orlo del terzo millennio, è soprattutto un mestiere, e soltanto i Re capaci di fare il Re come si deve saranno rispettati nel mercato delle istituzioni in questa nostra era che è la più pragmatica mai vista nei secoli. La logica dell'efficacia e della necessità ha raggiunto anche le case reali, ragione per cui Juan Carlos di Spagna, da bravo professionista, sa distinguere tra la sua vita pubblica, il suo lavoro e la sua vita privata, come egli stesso ebbe a dire a José Luis de Villalonga nel libro di conversazioni Il Re (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer, n.d.t.): «Ai tempi del generale Franco non si faceva distinzione tra il capo dello Stato e la sua persona privata. Il generale Franco non veniva mai considerato, in nessun momento, come una persona privata. Io ci tengo molto ad esserlo, non appena riesco a liberarmi dagli impegni della mia carica».

Appena arrivo a palazzo vengo accompagnato in una saletta contraddistinta da tutti gli attributi dell'asepsi. Nemmeno le riviste posate sul tavolo emettono segnali tendenziosi. Non una sola rivista di informazione politica spagnola, e invece vedo campeggiare The Economist, Le Nouvel Observateur, Le Point, Time, insieme ad Apnea, specializzata nel mondo sottomarino, e Desnivel, per alpinisti. Dentro un'urna, rose di ferro, efflorescenze cristalline provenienti dal San Gottardo; alla parete, un bozzetto di Sorolla di ciò che avrebbe dovuto essere un ritratto di Alfonso XIII frustrato dalla morte del pittore; su un tavolo all'angolo, una targa di argento sbalzato del gioielliere Bulgari con la riproduzione del nome della romana via Condotti, una delle strade che partono da piazza di Spagna in una delle più attraenti zone della città, targa dedicata al re, nato a Roma e ricordatissimo per le sue visite alle trattorie di Trastevere; c'è anche un Astrolabium Universalis Hispaniae, poetico e ambizioso marchingegno per osservare la posizione degli astri e determinare l'altitudine rispetto all'orizzonte.
    —Sua Maestà la riceve subito.
    —Sua Maestà ti riceve subito, Manolo.

    Navigo sulla scia del mio introduttore che mi abbandona sulla soglia dello studio reale. Trovo Don Juan Carlos con i capelli di un biondo un po' più pallido di quello di quattro anni fa, i lineamenti borbonici sottolineati dagli anni, nonostante stenti a scomparire l'ombra dei malinconici tratti di sua madre, così presente nelle foto dell'infanzia e dell'adolescenza.

    [...] Recuperiamo la durezza della polemica inerente alle relazioni tra la Catalogna e la Spagna mistificata dagli interessi politici tesi a indebolire la polemica tra Pujolismo e Felipismo (gli ismi sono farina del mio sacco), e il Re confessa di essersene preoccupato parecchio nei momenti di maggior tensione e di aver cercato di intermediare, forse con espressioni non dissimili da quelle che, dicono, aveva rivolto in catalano a Pujol la notte del golpe, fallito, del 1981: «Tranquillo, Jordi, tranquillo». Ma più di recente andavano invece calmati coloro che con il discorso anti-pujolista agitavano le acque del cahier de doléances anticatalanista, delle rivendicazioni della Spagna povera e unitaria contro la Catalogna ricca e secessionista.
    «Pujol ha i suoi difetti come chiunque altro, ma bisogna ammettere che ha il senso dello Stato. Si è esagerato sul problema. Mia figlia vive da quattro anni in Catalogna e vi si è perfettamente integrata. I suoi colleghi parlano spesso in catalano. Lei lo capisce. Addirittura lo parla».
    Si racconta che durante il suo esilio a Losanna, Don Juan de Borbón abbia imparato il catalano per assolvere appieno la responsabilità del proprio titolo di conte di Barcellona, e lo stesso Don Juan Carlos, ancora Principe, colse l'occasione di una delle sue prime visite a Barcellona da legittimo erede del regime di Franco per pronunciare in catalano una parte del proprio discorso. Particolare che non piacque affatto ad Arias Navarro, capo del Governo, ma il Principe spiegò di avere carta bianca in quanto rappresentante del capo dello Stato.

    I gesti. Un Re comunica più con i suoi gesti che con le lunghe frasi, ma talvolta i gesti dei Re svaniscono nell'aria o restano al massimo nelle fotografie.
    «Molto spesso sono consapevole di aprire porte o strade, e quando tempo dopo volto lo sguardo, constato che nessuno è entrato da quelle porte o ha seguito quelle strade. È stata scattata la foto, e questo è tutto. L'ho verificato sia per quanto riguarda faccende nazionali che internazionali. Vengo chiamato per avallare un'operazione che traduce un problema di Stato, e poi le cose non vanno molto oltre.»

    [...] No. Non accadrà nulla se vince il Pp (Partido Popular, di Aznar). Che può mai accadere? Le istituziom sono salde, dice il re. La democrazia si è consolidata. I poteri finanziari sono tranquilli. Erano più irrequieti qualche anno fa. Ci manca un po' di rodaggio democratico per cui ancora oggi viviamo le alternanze di potere quasi come un cambio di regime. Non Le dico che il mio brindisi preferito è «alla caduta regime», perché non vorrei lo interpretasse come uno slancio repubblicano. In realtà, quando brindo alla caduta del regime scommetto sul senso dialettico della storia.
    Il Re lamenta spesso di non poter dare informazione al di là di quanto non sia politically correct, perché non sempre l'occulta realtà che circonda la monarchia esce fuori in modo rigoroso.
    Qualche giorno fa vennero riconsiderati tutti i fatti relativi alla notte del golpe del 23 febbraio. Talvolta a parlare erano persone che vissero i fatti assai da vicino, e opinavano sulle loro origini, sulle loro conseguenze. Ma anche le loro informazioni erano piene di inesattezze.
    Ma un re, diversamente dal presidente di una repubblica, non può scendere nell'agone per dire la sua. Il decalogo del mestiere contiene un comandamento, e non so quale sia, riguardante la distanza dagli avvenimenti che bisogna mantenere per rimanere illesi, e del resto non esistono memoriali dei re. Perché non si sono scritti memoriali di regnanti? Può darsi che costoro siano condannati a non avere memoria, nonostante Don Juan Carlos se la sia formata attraverso una delle vicissitudini dinastiche più interessanti e mortificanti della possibile Storia delle Monarchie.

    Nato in esilio, in esso cresciuto condizionato da un dittatore presuntamente monarchico, diventa allo stesso tempo erede della monarchia e della dittatura, ma finisce col favorire il ritorno di una democrazia che nel passato era già costata la vita alla monarchia di suo nonno. Ouroboro. Il serpente che si morde la coda? O, nel caso di Don Juan Carlos, il ruolo dell'esperienza per arricchire l'istinto dinastico: le monarchie possono durare purché non diventino un ostacolo alla ragione democratica e sempre che trasmettano una gestualità interclassista. Don Juan Carlos non commetterà gli errori che costarono la corona al nonno, Alfonso XIII, bozzetto del quadro incompiuto di Sorolla, o al cognato, Costantino di Grecia.

    [...] Il Re ricorda come particolarmente duro il momento in cui Franco lo mise tra l'incudine e il martello: «Vuole essere mio erede con il titolo di Re?».
    —Eccellenza, sono appena tornato da Estoril. Se me ne avesse parlato prima, mi sarei consultato con mio padre.
    —Proprio questo volevo evitare. Vuole, o non vuole essere re?
    Che fare? L'istinto dinastico gli fece dire di sí. Tanti anni di sacrifici all'ombra di Franco, lontano dalla famiglia, da se stesso, si potevano buttare in mare? Il padre, pretendente dinastico naturale, non la prese certo bene, ma fu allora che le donne di famiglia, la madre, le sorelle, riportarono al buon senso paterno e dinastico il pretendente impossibile, tante volte ingannato da Franco. Padre e figlio finirono non solo col riconciliarsi, ma per diverso tempo eseguirono un'azione congiunta: da un lato Don Juan Carlos agiva con la gestualità di un erede del regime franchista, e dall'altro suo padre continuava ad attizzare le speranze dell'opposizione democratica.

    [...] È nota la passione di Don Juan Carlos per le macchine, e quanto gli piaccia guidare la sua in cerca di un'autonomia di movimenti che i Re non si possono permettere. Il Re adora mettersi alla guida e andare a Casa Lucio con la regina e alcuni amici per mangiare, come no, il rituale filettone di nasello. Al Re piace mangiare culturalmente bene, il che significa che gli piace ubbidire al precetto marxista, e qui parlo di Karl Marx, secondo cui per conoscere un paese bisogna mangiare il suo pane e bere il suo vino. Lui e io abbiamo qualche Mecca gastronomica in comune. Ca l'Irene, a Baqueira, o l'Hispania di Arenys de Mar, gestito dalle sorelle Reixach, Paquita e Lola, capaci di vincere le resistenze vegetariane della regina. Il Re sarebbe ben felice di recarsi ovunque in moto.
    —Ma non me lo lasciano fare.

    —Chi Le vieta di andare in moto?
    —La regina. I miei figli.
    Incidenti e lesioni fanno parte della vita di uno sportivo, e l'istinto dinastico gli consiglia di non esporsi a fratture eccessive, mentre prosegue l'educazione del Principe, con il quale proprio oggi ha conferito a mezzogiorno. Parla del figlio come di un giovane di ventotto anni, pieno di curiosità per la fauna e la flora della politica spagnola. Tu, papà, che ne pensi di Caio? E di Sempronio?
    Ascoltando le opinioni di Don Juan Carlos su tale fauna e tale flora, mi torna in mente il monologo di Gelsomina, la protagonista de La Strada di Fellini, la quale dice che anche le pietre hanno un loro senso nell'universo.

    [...] Ritorno nello studio del Re mentre mi sta raccomandando un ristorante di Aranjuez di cui gli sono state cantate le lodi.
    —Ma si affretti ad andarci, perché appena diventerà di moda non sarà più lo stesso.
    Mi segno il nome. E appena posso verificare le meraviglie di quel ristorante, constato che il Re ha proprio buon gusto: casseruola di riso brodoso con polpettine di merluzzo, prosciuttini di piccione marinati e serviti tiepidi, pesce fresco cucinato nel sale, gli inevitabili fragoloni e fragole di Aranjuez. Baroja era antimonarchico, tra altre ragioni, perchè diceva che i Borboni non sapevano mangiare e che la domenica, al Palacio de Oriente servivano pollo. Per me, uno dei dati positivi di Don Juan, padre del re, nei suoi incontri con Franco era il fatto che quando il dittatore ordinava una gazzosa per ostentare il suo puritanesimo, il pretendente ordinava un whisky, suppongo di malto. Glendeveron, Knockando, Michel Couvreur, Singleton, Skye, Orkeny, Laphroaig, Talisker? Se penso che Ceausescu si limitò ad accumulare bottiglie di JB! Che i Re siano favorevoli ai piaceri innocenti, deve figurare tra i loro meriti, soprattutto se questo decennio di puritanesimo continua a oltranza. E la penserebbe così anche Carvalho, nonostante il suo anarchismo recalcitrante. Il Re ha letto qualche romanzo di Carvalho e accoglie l'ultima storia del detective, Il premio, come una promessa di continuità.
    —Ma non mi faccia aspettare cosí a lungo la sua prossima visita.

(Traduzione di Hado Lyria)


Ancora su Juan Carlos I:

Juan Carlos quel Re troppo amato, articolo di fine 1997.