M.V.M.

Creato il
21/1/99.



L'unico fallimento di Ferdinando Scianna

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

Introduzione del libro di fotografie Le forme del caos di Ferdinando Scianna, 1989, Art&.


Insegnare a vedere. Questa è una giustificazione della pittura cui si fece ricorso quando il realismo venne costretto a legittimarsi o quando si spezzó cercando altri possibili codici di giustificazione. In parte la letteratura ha dovuto giustificarsi in modo simile quando si accese la querelle tra il realismo riproduttore (Lukacks) e il realismo rivelatore (Brecht), anche se entrambi rivendicavano la dialettica trasformatrice come fine etico. Lukacks si era vietato di leggere tutto ciò che non fosse ovviamente storico e Brecht aveva bisogno di una teoria che gli consentisse di leggere Kafka o i surrealisti senza rimorsi storici, ossia, militanti. Il realismo come rivelazione. La pittura come rivelazione, che a farla sia Rossetti, Mondrian o Munch. E la fotografia? Alla fotografia venne delegata la responsabilità di riprodurre, incaricandola in particolare di essere fedele al modello, e si elaboró persino un credo estetico che pretese "l'obiettivo", lo sguardo "dell'obiettivo" come garanzia di obiettività. I fotografi venuti dopo Cartier-Bresson si sono battuti contro questa supposta neutralità dello sguardo fotografico ed hanno difeso il ruolo e il diritto alla soggettività. L'occhio sceglie un frammento del mondo, un dato frammento, secondo una luce che trasforma la materia, non solo la compone, e secondo uno stato d'animo legittimo seppur controllato dall'istante tecnico, tutta la tecnica in un istante e in quello sguardo tutta una vita, tutta una cultura, persino tutto un progetto individuale o collettivo. Lo scrittore pensa e scrive. Il fotografo pensa mentre fotografa e perciò ogni foto è un pensiero.
    Ferdinando Scianna ha l'aspetto di un senatore romano, con inquietudine, ossia, di quei senatori romani a cui Caligola ordinava di suicidarsi perché avevano fotografato i carri armati russi a Praga o il momento in cui Reagan spendeva in ginger ale e bottigliette di ketchup le mance segrete dell'Irangate. Ma, prima di suicidarsi, Scianna aveva fotografato Caligola che baciava la propria immagine allo specchio o si iniettava ketchup nelle vene, nei vespasiani di una città di provincia. C'è chi pretende di avere sempre l'ultima parola, ed è ciò che fa Scianna con l'ultima fotografia. Apre e chiude gli occhi e si sente uno scivolare di lamelle che inghiotte un pezzo di realtà ed ha ragione Leonardo Sciascia quando scrive di avere l'impressione che la realtà si organizzi esorcizzata dallo sguardo di questo fotografo. La realtà si organizza, ossia si mette in posa, e gli occhi di Scianna conoscono questa capacità di esorcismo. Mi guarda o mi telefona sempre tra un viaggio e l'altro, battute di caccia di fotomodelle nell'universo trasformato in scenario del mercato della moda, e le sue foto di moda sono inquietanti perché raggiungono la categoria di maschere di corpi a cui viene regalata la condizione di codici: dalla coperta del traghetto tra due guerre (di quali guerre non importa) o dal finestrino di un Orient Express al rallentatore (e non importa neanche di quale Orient Express) Scianna mi riporta ricordi rotti di Yramín e immagini di Sciascia in chiaroscuro, ma la sirena si mette sempre a suonare nell'istante in cui sta per raccontarmi il perché del molo o della stazione centrale o lo stesso senso del viaggio, perché quando gli dico che si trova tra i fortunati che hanno visto l'alba sulle isole piu belle della terra... al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro.

    Naturalmente questa stoica umiltà pavesiana è falsa. Scianna, fotografo e quindi viaggiatore, non ha niente in comune con il deluso marinaio che ha scoperto, come Borges, che la luna di Asmara è la stessa luna di Buenos Aires. E neanche con il viaggiatore di Baudelaire, quel bimbo viziato che sempre tornava a se stesso
Amer savoir, celui qu'on tire du voyage!
Le monde, monotone et petit, aujourd'hui,
Hier, demain, toujours, nous fait voir notre image:
Une oasis d'horreur dans un désert d'ennui!
Scianna non viaggia per provare che la fuga, come la terra, è rotonda, ma perché torna dal viaggio con le valigie piene di fotografie, di pensieri visibili. I delusi del viaggio e del suo significato, come Pascal o Baudelaire, spingevano il loro ragionamento all'evidenza che l'unico viaggio esistente è quello che conduce dentro se stessi, per trovarvi l'armonia o l'orrore. Scianna è se stesso quando organizza la realtà con lo sguardo ed il viaggio assume per lui un senso di sfida verso tutto ciò che possa rivelare. Viaggia come un conquistatore di situazioni e gesti, con un senso iniziatico dell'avventura, ma non con il senso trascendentale dei piú trascendenti cavalieri della Table Ronde, ma con la curiosità da voyeur di un Erec che ordina a Enide di camminargli davanti come esca per ogni tipo di istantanea. Di questa condizione di cacciatore che porta dentro di sé la preda da cacciare parla Leonardo Sciascia quando scrive in proposito... sentiva la fotografia da fare, la fotografia che si portava dentro e che lo aspettava, come infallibilmente chiamato.
    Walter Benjamin aveva una complicità fondamentale con Bertold Brecht, entrambi amavano la buona letteratura anche quando non corrispodeva allo schema riproduttivo e critico della realtà richiesto dall'estetica sociale dell'epoca. Perciò Benjamin, nella sua Breve storia della Fotografia cita Brecht affinché lo aiuti a spiegare che cos'è l'aura, questo significante aggiunto che deve esserci in ogni riproduzione del reale. «Una semplice replica della realtà —scrive Brecht— non ci dice niente sulla realtà. Una foto delle fabbriche Krupp ci spiega ben poco su simili istituzioni. La realtà vera e propria è diventata qualcosa di funzionale. La reificazione delle relazioni umane nelle fabbriche non appare dalla semplice riproduzione di queste fabbriche. È pertanto necessario aggiungervi qualcosa, qualcosa di speciale, di prefabbricato». Qualcosa che il fotografo deve trovare attraverso la tecnica, ma anche al di sopra della sua tecnica, aggiunge Benjamin, e critica lo sdegno provato da Baudelaire nel vedere le fotografie esposte al Salon di Parigi nel 1859. «In questi giorni deplorevoli si è prodotta una nuova industria che ha contribuito non poco a confermare la stupidità della fede secondo cui l'arte è e non puo essere altro che la riproduzione esatta della natura... Un Dio vendicativo ha ascoltato le preci di questa plebaglia. Daguerre ne è stato il Messia. Se si consente che la fotografia sostituisca l'arte in alcune sue funzioni, presto le ruberà il posto o l'avrà interamente corrotta, poggiando sull'alleanza naturale con la stupidità della maggioranza. È pertanto necessario che essa ritorni al suo ruolo effettivo, che è di essere la serva delle scienze e delle arti». Benjamin affronta il duello con la maledizione di Baudelaire ed esige che la fotografia si letteraturizzi, ossia che inglobi tutti i rapporti della vita, la memoria del fotografo e la sua volontà di storia. E da qui è possibile individuare una seconda intenzione militante, da materialista storico. Nella riflessione di Benjamin, si puó addirittura compiere una lettura riduttiva della sua domanda «Non deve forse il fotografo —erede dell'augure e dell'aruspice— scoprire la colpa con le sue immagini e segnalare il colpevole?». Infatti, è possibile fare una lettura riduttiva, di politica fotografica come testimonianza, ma colpa e colpevole sono in questo caso piú polisemici e Scianna, in uno dei suoi viaggi di andata e ritorno, dalla coperta di un traghetto tra due guerre o dal finestrino di un Orient Express stranito, mi poté dire: «Fotografo solo disordini».
    Vediamo se è vero. Il fotografo si è autoantologizzato ed in un certo senso ha spezzato l'unità delle sue opere organiche sulla Sicilia, gli scrittori, le fotomodelle, il mondo come ingrandimento e totalizzazione de l'istante e la forma: un eccellente anticipo di se stesso. Seleziono fotografie con il falso automatismo di ogni automatismo, alcune sono in questo libro, altre le ricordo e le leggo nella mia memoria, ed in ognuna di esse c'è una proposta di disordine che non va confusa con il carattere dell'insolito. Un giovane guerrigliero cristiano libanese prende la mira con la mitragliatrice, prende la mira con due occhi, con il suo che valuta la morte e con un occhio immagine, un ovale con una madonna protettrice e assassina. Due vecchi distrutti, in un angolo distrutto di strada, seduti su due sedie distrutte in una Madrid che potrebbe essere il Cairo. La vecchia sembra che stia baciando una colomba travestita da pappagallo. Il vecchio contempla la scena con curiosità agonizzante, ma nel suo volto non vi sono piú muscoli che esprimano la tenerezza. Un uomo dal torso vigoroso, collo scultoreo di amato amante di un tardo Michelangelo sonnecchia appoggiato al seno di una statua che potrebbe essere sua madre, una madre che guarda un punto cardinale complice. Sul volto dell'uomo, il cappello di un incantevole ubriacone di Hollywood. Ma non è un uomo, e neanche un uomo ubriaco. È la statua originale condannata all'equivoco di una Pietà postmoderna, barocca per Palermo, ma genekellyana o astairiana nella supposizione. Una modella ingravida ma mediterranea posa tra quattro donne senza pietà, ossia, condannate da una biologia tra due guerre (insisto che non importa quali guerre). Non è il sarcasmo della vecchiaia davanti alla gioventú o della bruttezza reale davanti alla bellezza da Vogue. La favola non ha una morale. Sono semplicemente cinque pazze messe insieme per la fotografia, sotto il sole, dallo sguardo di Scianna. E quella bambina Ofelia siciliana che cammina per un cortile, rincorrendo un'anatra e si ferma davanti alle equivoche foglie cadute da un fico, saranno fiori di loto per il naufragio della Ofelia inglese, sulle acque, altro loto preraffaellita: ma questa Ofelia è mediterranea, chiara e oscura, con gli occhi teme le foglie di loto, però con la mano scoprirà che son foglie di fico. I tuffatori di Sicilia, simili a quelli di Acapulco, sono ragazzi che corrono a precipizio verso le acque o verso la piú radicale durezza della terra? E quella falsa parodia del Déjeuner sur l'herbe, a Rimini precisamente, in cui i signori giocherellano con il flusso delle acque e le signore assumono invece un atteggiamento, loro, la prima piacente e pensosa, l'altra a chiedersi il vero senso del mare, come un Sant'Agostino travestito o una semplice casalinga catturata dall'orizzonte? E quella vecchia madre Cerere siciliana che sale una scala di artificio, una piramide di piastrelle istoriate come se non avesse mai letto Ruskin? E cosí fu. Lo sguardo di Scianna sulla Sicilia non fa la raccolta di mafiosi, ma di figli della terra e dei quattro venti e dei quattro punti cardinali, come quell'uomo che torna a casa sul suo asino con due vezzi complementari, il parasole e un bimbo addormentato. Il parasole per il bimbo addormentato, le erbacce, sole della sera, calzini a righe e scarpe lustrate a festa. Forse tra tutti i ritratti di scrittori di Scianna quello di Sciascia è una autentica metafora del disordine della cultura: Voltaire, Kafka, Graham Greene, Orson Welles, e il metodo del discorso senza metodo. Vale a dire: Sciascia.
Ma è nelle città che lo sguardo di Scianna cattura i disordini migliori e le sue fotografie diventano metafore. New York e due automobili, una come uno scarafaggio schiacciato all'ombra di un ponte e l'altra un perfetto atleta articolato nella contestuale paura di una strada in fuga e di un negro probabilmente anch'egli in fuga. O quel palazzo natura morta, subrazionalismo architettonico per poveri in scatola da cui, improvvisamente, spunta la figura umana. E a Parigi, un Belmondo-Lautrec da metropolitana e postubriaco, la testa fluviale in un rettangolo di barcone, due bicchieri che brindano in onore della miseria, una sedia (anch'essa del periodo tra due guerre) assassinata in un angolo sotterraneo. Il volto miracoloso della parapsicologia che si affaccia tra rughe di pubblicità, all'ombra di siti industriali. O quella tigre di schiena che di fronte diventa l'amarezza di una donna che si è guardata per l'ultima volta allo specchio e cammina verso l'Ufficio delle Sconfitte. Vi sono ripetizioni, vizi da voyeur, famiglie di istantanee, come quelle con uomini carichi di sedie o di alberi o di cassoni tanto grandi da contenere la loro alienazione, quegli uomini che caricano sulle spalle il proprio lavoro come follia e come zavorra. Indigeni di Europa. Indigeni di America. Indigeni dell'Asia. «Fotografo il disordine —ho forse già detto che mi gridó Scianna nel suo ultimo o penultimo viaggio passando per la mia città— e per coglierlo mi devo aiutare con il letterario, il letterario è qualcosa di piú della letteratura in senso stretto, ma la fotografia ha bisogno del letterario. Spesso vedo legate letteratura e fotografia, soprattutto, simbolicamente, in un libro che amo molto, Conversazione in Sicilia di Vittorini, in una edizione del 1953 illustrata da 188 fotografie. Non è che oggi io consideri questo romanzo la migliore opera di Vittorini —di questo autore mi interessano di piú i testi critici e politici di Diario in pubblico— ma sono stato affascinato da quell'itinerario siciliano lungo il quale ho sentito sovrapporsi allo sguardo di Luigi Crocenzi, che scattó la maggior parte delle fotografie, lo sguardo di Vittorini». Allora, gli dissi, anche se non so se riuscí a sentirmi perché la sirena ululava annunciando commiati, Benjamin era in qualche modo nel giusto mettendo insieme letteratura e fotografia. Ma no, piú tardi, in un successivo viaggio, credo l'ultimo, Scianna mi ripete quanto in quella occasione non avevo potuto udire. La letteratura va bene per lo sguardo del fotografo. La cultura in genere, anche se lo moralizza. E mi raccontó che la morale, ossia la cultura, puó talvolta bloccargli il dito, e impedirgli di scattare, quando il frammento di realtà che lo vuole è un bambino terrorizzato da un terremoto.
    Si tratta della morale? Non è, invece, forse, che Scianna preferisce selezionare disordini e in un certo senso allontanarli da ogni realismo sorprendente o truculento? Non sarà che tutte le fotografie di Scianna, anche quelle in esterni che catturano al volo le cose e i gesti, sono foto di studio, perché tutto e tutti, in certo senso, posano per lui? L'ammessa passione per Cartier-Bresson e la teoria dell'"interesse umano" ce lo colloca tra le file della comunicazione libertaria, libertà di fotografare, libertà di leggere, voltando le spalle ai traffici codificazione-decodificazione dei semiologi. La semiologia è quella scienza che innanzitutto spiega perché i tavoli con quattro gambe sembrano avere quattro gambe e quale luogo occupa questa costatazione nella scala comparativa dell'iconicità decrescente o dell'astrazione crescente. Diventa difficile fotografare cercando quel punto di incontro tra l'iconicità che parte e l'astrazione che arriva e nella difficoltà Scianna si ferma all'opera aperta filtrata da una soggettività che il lettore rende oggettiva o ignora o falsifica e sempre modifica. Questo è tutto. Il linguaggio viene creato e rinnovato dagli artisti e dai lettori, mai dai decodificatori, diventati tribú di specialisti del fare a pezzi che comunicano tra di loro con telefonie che solo loro capiscono, apprezzano e di cui solo loro hanno bisogno. Tra quel Baudelaire che voleva le fotografie come serve e i semiologi che vi applicano termometri di figurativismo e iconicità, resta il tremore umano di Benjamin che vorrebbe che le fotografie si portassero sempre dentro l'anima dell'utopia, della colpevolezza determinista della realtà. Benjamin spiegava tutto ciò con la piu bella e fragile poiesis marxista di questo secolo e Scianna la materializza con uno sguardo anarchico che appone alle modelle la data di scadenza e nelle vittime luci di insurrezione.
    A Scianna, uomo che ama la Letteratura quanto io amo la Fotografia, dava fastidio che Baudelaire fosse stato cosí cieco, cosí conservatore, cosí reazionario anche se, ben sapendo che lo stesso Nietzsche era un imbecille in questioni amorose, Scianna ammette che il talento possa essere unidimensionale e la condotta pluridimensionale. Comunque, è un boccone amaro fotografare pensando che Baudelaire non è d'accordo con il fotografo. Brecht ha detto di sí. Sciascia gli ha addirittura dedicato una prefazione. Benjamin lo ha profetizzato. Abraham Moles ecologizza e iconizza. Vittorini non rifiutava di sovrapporsi o di venire sovrapposto dall'immagine fotografica. Ma Baudelaire insiste nella sua diagnosi e pretende da lui, continuamente, che fotografi Nancy Reagan come contributo alla Storia della Chirurgia estetica o un quadro di De Chirico per trafiggerlo con uno spillone nei Dizionari enciclopedici o gli assetati bimbi etiopi ad illustrare una qualsiasi teoria della sete.
    —Che facciamo di Baudelaire?
Me lo aveva chiesto tempo addietro, e gli risposi:
    —Ignoralo
Ma Scianna scosse la testa mentre guardava l'oscuro, invisibile oggetto del suo desiderio.
    —Se la potessi fotografare!
E questa è l'unica impotenza del fotografo. Può fotografare la morte, ma soltanto se si mette in posa.