M.V.M.

Creato il
21/11/97.


Ancora su Lo strangolatore:

1) Intervista con lo scrittore

2) Presentazione di Alessandra Riccio


Memoria e desiderio: lettura di una devianza

HADO LYRIA*


Nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli ascoltatori.
(Walter Benjamin)

La natura è una sfera spaventosa, il cui centro sta dappertutto e la cui circonferenza in nessun luogo.
(Blaise Pascal)

Nulla inaridisce una mente quanto la ripugnanza a concepire idee oscure. In questo grande dormitorio dell'universo, l'incubo è la sola forma di lucidità.
(Emile Cioran)


Walter Benjamin ci ricorda in Tesi di filosofia della storia che l'acedia, la pigrizia del cuore, «era considerata dai teologi del Medioevo come il fondamento ultimo della tristezza. Flaubert, che ne aveva fatto la conoscenza, scriveva: Peu de gens devineront combien il a fallu être tristepour ressusciter Carthage». E questo perché Flaubert aveva scelto di scrivere la storia dei vinti. Vázquez Montalbán, paladino a sua volta dei perdenti e mai interamente stanco di aspettare i barbari, ha pagato spesso con la tristezza questo gioco di estenuazione. Ma quando lo scibile non ha più certezze e, perso tra memoria e desiderio, appare come una spaventosa sfera tra sfere senza centro, può accadere allo scrittore (creatore a sua volta di sfere) di adirarsi come un dio gnostico in mezzo a tanta melancholia e di voler attingere all'oscuro dell'Es, e non con intenti di dominio sul cattivo selvaggio per sfruttarne le risorse, ma per esprimere con la voce sua una grande ansia di sarcasmo giustiziero. Vázquez Montalbán, nel vortice di questa presumibile turbolenza, decide quindi di immedesimarsi nello strangolatore, compiere la discesa agli inferi sino al fondo della notte dell'ospedale psichiatrico e dell'autismo («pietra fallica dell'uomo abituato a non parlare») facendo del suo protagonista un folle che risulta, specchio dell'Autore, un personaggio talmente emblematico da consentire letture interlineari multiple, un capro espiatorio (o eccellentissimo semicadavere) che è letteratura e ricerca, l'abominio incarnato del dio-fanciullo invecchiato un po' male. Il testo è così denso di commistioni, sdoppiamenti e rumore che mi pare più che mai opportuno proporre un'interpretazione, una sola e mia personale, tra i molti approcci possibili a un testo che lo stesso Autore ha vissuto —lo confessa— come «voce dietro la scena» o numinoso dettato. E se è stato deciso di collocare queste mie pagine in fondo al libro, è proprio nella presunzione che il lettore conosca già la storia e mi consenta di impelagarmi senza altri preamboli nel torbido mai prima rivelato, quantomeno tanto esplicitamente, dell'animo del nostro Vázquez Montalbán.

Incontriamo quindi la voce in prima persona dello strangolatore (di Boston, Barcellona, delle Città del Mondo) che parla a se stessa, ma che comunica quasi solo per iscritto (diaristica, frammenti poetici) grazie a un sistema di depistaggi, plagi e sbruffonate da vero credente nell'assassinio inteso come una delle belle arti. Uomo enciclopedico, fallito uomo-totale lao- coontiano, deluso non già del nozionismo e delle sue bazzecole ma della stessa conoscenza, apprende l'insipienza dell'apprendere e del sapere, disprezza confutandola la realtà oggettivabile e scommette soltanto sulla propria medesimezza. Da notare che lo strangolatore parla di medesimezza e non di identità, ché l'identità presume uno scrutatore-identificatore esterno, vale a dire l'Alterità. Nella medesimezza lo strangolatore vede l'Isola del naufrago di tutte le battaglie, preesistente allo stesso naufragio e a ogni coscienza: l'unicità inviolabile e innominabile, atrocemente mortale, che è scoria dell'essenza. Essa è soggetto e oggetto e pertanto salva: eppure non salvifica, perché non mediata. Così, nell'adamantino codice dello strangolatore, salvezza sta per dannazione, e dannazione per pulsione di vita, l'intatto daimon che come Cronos si nutre dei suoi stessi giorni e, proprio perché atrocemente mortale, si trova funzionalmente costretto a infrangere tabù di vita. Lo strangolatore vivifica il rito di sangue con cerimonie più o meno seriali (è la serialità a fare del rito un rituale) ch'egli inventa via via, da vero enfant terrible con una ben precisa missione. Sceglie di circondare con una corte dei miracoli composta da vittime minori e umiliabili (maestre e professori suppuranti umori e fetori, prostitute, una missionaria corruttrice, il rivale zoppo, parenti in inarrestabile decadenza, psichiatri disispirati o critichesse d'arte), quelle che saranno le sue poche vere vittime sacramentali. Che, non c'è santo che tenga, finiscono tutte morte e dissacrate. Solo così vale la pena di far fuori padre e madre (due sconfitti storici); i figli colpevoli di credere ciecamente nella protezione del padre-strangolatore; la ragazza dorata per eccellenza, Alma, Anima, Animula, la sola persona con cui lo strangolatore potrebbe spartire e scambiare medesimezze nella Città sognata del Desiderio, la sola su cui investire la pulsione di immortalità, «speranza che non va mai patteggiata con i figli». Tant'è che lo strangolatore, seppur poco proclive a credere nella bontà degli esempi, ammira e sempre dove può imita, con una punta di invidia, Onan —quel peterpanesco personaggio biblico— rammaricandosi di non essere stato castrato da bambino, sistema che gli avrebbe evitato le infinite noie dell'istinto riproduttivo, mal compensate dal piacere sempre troppo breve nel maschio o dall'illusione infame del procreare.
«Nel sacrificio della messa», spiega Jung, «si fondono due idee in sé distinte, e cioè quelle di deipnon e thysia. Thysia viene da thyein: immolare, macellare, ma anche divampare, alzarsi fiammeggiando». Per lo strangolatore, questo fuoco sacrificale è l'erezione cannibalesca che con il suo stesso divampare eiaculante allagherà di morte (fuoco=acqua; sorgente=luce) lo spiritus niger che giace imprigionato nell'oscurità della materia. «È quel dio, o parte di dio», prosegue Jung, «che fu divorato dalla sua stessa creazione, lo stesso che nel mistero della trasformazione alchimistica fa ritorno alla sua originaria condizione luminosa». In umbra erat aqua de petra quasi sanguis ex Christo. Perché nella sconvolta visione dello strangolatore (ma sarebbe meglio chiamarla profonda, perché allo sconvolto solo la normalità pare sconvolta), acqua è sempre morte. Ai genitori agonizzanti legge l'aurea laminilla che descrive la sorgente dell'Ade e quella della Laguna della Memoria, custodita da fieri guardiani a cui si attinge per regnare insieme agli altri eroi. Le fantasmagorie acquatiche dell'incivilito Eliot (da sempre fonte di ispirazione e di saccheggi per Vázquez Montalbán) porteranno lo strangolatore all'elegiaco inventario delle sue Morti per Acqua preferite, passando dal cadavere ingorgato di Phlebas il Fenicio (la Boston-Barcellona dello strangolatore fu fondata, raccontano leggende locali, dall'ex fenicio Asdrubale Barca, e il nome di Asdrubale indicherà nel nostro testo sia un frigo complice e assassino sia un poeta cartaginese e balbettante; mentre lo stesso Autore, non va dimenticato, è figlio di Barcinona e poeta di ottima dizione). L'inventario si sofferma sulla «corrente sottomarina» che raccoglie ossa in sussurri, sebbene trascuri l'implacabile verso «Queste sono perle che furono i suoi occhi» con cui Eliot fa annunciare all'indovina Madame Sosostris la spenta medesimezza di Phlebas. Incontriamo elencata l'Ofelia preraffaellita di Everett Millais, chissà se annegata nell'«enorme bosco sottomarino nutrito di rame» come lo stesso colore delle acque indicherebbe; e le sirene che trascinano in fondo al mare con i loro canti saffici (singing each to each). E non è forse reminiscenza dello Sweeney eliotiano lo psichiatra ucciso nella vasca da bagno? Quanto a saccheggi delle Scritture, il laico Vázquez Montalbán sa il fatto suo. Come per esempio, nell'interpretazione attribuita allo strangolatore: «...contro il simbolismo dell'acqua viva e fattore di vita, culminante nell'oscenità dello Spirito Santo, suprema acqua di saggezza che lava le anime. Ma nel bell'Antico Testamento l'acqua è fondamentalmente morte, come le acque del Mar Rosso, aperte perché Mosè possa fuggire con il suo popolo, e nella sua condizione di morte l'acqua acquista la sua vera levatura: 'Salvami, Signore, perché di acqua mi si è riempita l'anima...', grida con panico da affogato interiore il libro dei Salmi».
Quanto sia detetminante il citazionismo per Vázquez Montalbán (nonostante costringa lo strangolatore a odiare la cultura e il detective Pepe Carvalho a bruciare libri), ce lo riconfermano i titoli delle parti in cui il libro è suddiviso: «Ritratto dello strangolatore adolescente» si ispira —come il lettore italiano avrà subito capito— a Dylan Thomas; mentre «Ritratto dello strangolatore seriamente malato» è un omaggio alla diaristica di Jaime Gil de Biedma, poeta e indiscusso maestro anche del nostro Autore. Lo strangolatore era nato a sua volta come omaggio a un testo visivo, il film di Fleischer Lo strangolatore di Boston, da cui il nome, storico, di Albert DeSalvo.
I toponimi del romanzo risultano ripresi, in gran parte, dalla Nuova Inghilterra eliotiana. La scelta di Cape Ann come scogliera da cui far precipitare i figli, i Dry Salvages, East Coker (forse anche bizzarra reminiscenza della reclusione psichiatrica di Pound, miglior fabbro), «i fondi sentieri», il paesaggio contemplato dal terrazzo dell'ospedale, provengono tutti dai Quattro quartetti, ed è ancora da Eliot che Vázquez Montalbán ha ben appreso, sin dall'adolescenza, non solo l'imperterrito atteggiamento di aprile, o la gran desolazione di terre e anime, ma anche l'uso del «correlativo oggettivo». Ed è proprio in questo «correlativo oggettivo» che vanno inseriti molti elementi precisamente biografici riscontrabili nel testo: il quartiere stesso dello strangolatore e di Alma, già descritto dall'Autore nel suo Il pianista, le strade delle solitarie scorribande infantili, il «sorriso pallido», le scuole e i maestri con la mano di pietra, l'incursione nei bar dei quartieri alti (a cui si accenna anche ne Gli allegri ragazzi di Atzavara), le case di chiusi orizzonti del quartiere presso il porto, le gabbie del luna-park. Uno sfogo personale? Senz'altro sì, ma soprattutto una tecnica, riuscitissima, per presentare una sostanza che all'Autore bruciava dentro. Come possiamo supporre gli bruciassero dentro incomprensioni, delusioni politiche, personali scalfitture in parte sublimate nella pagina, ma comunque esorcizzate con il filtro dell'ironia e del distacco ctitico. Anche le vicende psichiatriche, come il documentato quadro clinico dello strangolatore, sono qui, a mio parere, soprattutto la risposta o proposta oggi possibile —oltre che, come no, emblema di devianza e repressione in una delle loro forme più contemporanee— alle domande formali che inquietano lo scrittore. Comoe continua a inquietarlo la Città.
«La città interiore dell'autistico?» si domanda uno psichiatra lacaniano, eteronimo evidente dello strangolatore «La città della memoria?» [...] «città immaginata, come una alcova» dove lo strangolatore e Alma non si incontrano mai, «città sommersa, annegata nell'acqua», cathédrale engloutie, città placenta, città madre «al di là dell'opposizione apocalittica tra Gerusalemme, la città dell'ascesi, e Babilonia, città di dannazione, tanto simile alla Roma vista da San Giovanni come una Bestia dalle sette teste, sette colli, sui quali siede Roma, l'anticittà, la madre corrotta e corruttrice che porta maledizione e morte, per far fronte alla quale sono necessarie la presenza purificatrice e la guida della ragazza dorata, di Alma». Paesaggio di vecchie pietre indecifrabili da cui sempre si parte (navigare necesse est) per farvi ritorno, per tornare con Alma in quel principio che è ciclica nostra fine, nell'ambito riconoscibile della loro coincidente medesimezza. Alma-Danae compresa da Klimt, chiusa in se stessa, scrigno che non riceve oro ma lo sparge, orto concluso e lustrale: «finalmente soli tra le piante agitate dagli arrivi dei Messia».

Sappiamo di un popolo che riconosce in un libro la propria significazione. Di un poeta che sognò l'universo come una biblioteca. Del sogno di Paolo e Francesca su un libro che li condusse nel sogno di un altro libro, l'Inferno. Sogno ora io così, che la città sognata dallo strangolatore non è altro che un libro, il solo libro le cui pietre egli voglia sfogliare e decifrare. Che incontrando un giorno questo libro-città incontrerà Alma. Che questo libro sarà stato scritto per lui dal buon Vázquez Montalbán, capacissimo per incuria di bruciarglielo nel caminetto di casa. Che Alma è il Libro stesso, tutte le sue pagine e il suo verbo. Che la città è la rosa (Rosa di Fuoco: così gli anarchici chiamavano Barcellona. Il nome le fu dato da Engels, ammirato delle sue molte barricate).


*Hado Lyria (pseudonimo di Myriam Sumbulovich) è pittrice, poetessa e traduttrice in italiano della maggior parte dei libri di Manuel Vázquez Montalbán.


Ancora su Lo strangolatore:

1) Intervista con lo scrittore

2) Presentazione di Alessandra Riccio