M.V.M.

Creato il
13/11/98.


Ancora su O Cesare o nulla:

1) Articolo di Antonio Gnoli

2) Intervista su l'Unità

3) Intervista su Specchio

4) Chi sono i Borgia


Metti una sera a cena con Montalbán

ANDREA SCANZI

Il Mucchio selvaggio, 6 / 10 / 1998.


O Cesare o nulla: è questo il titolo del nuovo libro di Manuel Vázquez Montalbán, edito da Frassinelli. L'autore catalano ha presentato il suo romanzo a Villa Strozzi, Firenze. Montalbán si è rivelato persona squisita e godibilissima. Durante la cena che ha seguito il dibattito, incentrata su pietanze rinascimentali (l'epoca del protagonista del romanzo, Cesare Borgia) e preparata dall'Arcigola, abbiamo dialogato a lungo con lo scrittore. Con noi c'erano Sergio "Bobo" Staino, Paolo Hendel e Francesco Guccini.

—Come sei arrivato a Cesare Borgia?
—Inizialmente è stata una produttrice televisiva spagnola a chiedermi di scrivere qualcosa sui Borgia, cinque anni fa, per poi ricavarne un documentario. Poi non se ne è fatto niente, ma nel frattempo mi ero appassionato alla materia.

—Cosa ti ha affascinato?
—Il tormentato rapporto tra Borgia e Machiavelli, la varietà dei personaggi minori, e soprattutto l'epoca storica di profondo cambiamento. È la dimostrazione della paura del cambiamento che fa seguito ad ogni istanza rivoluzionaria e che provoca, da parte dei detentori del potere, una controspinta che mira al mantenimento dello status quo. Ciò che rende unico il periodo di Borgia è il carattere familiare della disputa politica: Cesare Borgia ed il padre, Papa Alessandro VI, rappresentano le forze libertarie, mentre San Francesco di Borgia rappresenta la parte conservatrice.

—Perché Machiavelli ammirava Cesare Borgia?
—Machiavelli vedeva nel sogno egemonico di Cesare la possibilità di contrapporre una valida difesa all'invasione barbarica. Riteneva la civiltà italiana l'unica ereditaria naturale della civiltà classica, e in quel momento aveva bisogno di un uomo forte. Nella realtà, il sogno temporale di Cesare dipendeva da quello spirituale del padre: quando Papa Alessandro VI morì, il potere del figlio scemò inesorabilmente.

—Che ruolo ebbe nella vicenda Lucrezia Borgia?
—Fu uno strumento sessuale che servì per effettuare la politica delle "alleanze matrimoniali", indispensabili per la realizzazione dei desideri del padre. Alessandro VI si servì di lei per la parte diplomatica e di Cesare per quella militare.

—Machiavelli, Cesare e Lucrezia Borgia, ovvero tre personaggi dei quali la storiografia continua a discutere la "moralità".
—Il tema della moralità non riguarda solo i Borgia, ma tutti i protagonisti del tempo. Il famoso detto "il fine giustifica i mezzi" non l'ha certo scoperto Machiavelli. Sarebbe come sostenere che Marx ha inventato la classe operaia. La moralità al tempo era un'ipocrisia. Machiavelli è stato il primo "scientifico sociale" a constatare una pratica comune.

—Noti dei parallelismi con la società contemporanea?
—Oggi non siamo sicuramente ai livelli della famiglia Borgia, ma non mi sembra che la pratica della "doppia verità" e la corruzione siano state abbandonate.

—Il libro è dedicato ad un gesuita e ad Antonio Gramsci. Perché?
—L'ultima grande lotta per l'egemonia della Chiesa Cattolica è stata condotta dai Gesuiti, l'Opus Dei. Batllori, a cui ho dedicato il libro, è un uomo di un livello culturale straordinario. Ha 90 anni ed è il primo specialista spagnolo della famiglia Borgia. Prima di pubblicare il romanzo, gliel'ho mandato per avere il suo giudizio. Batllori ha approvato, e la sua libertà di pensiero lo ha portato a dire che "era un romanzo poco scandaloso". Alludeva all'incesto realmente avvenuto tra Papa Alessandro VI e la figlia Lucrezia, su cui io non ho insistito, a differenza di Apollinaire. I critici mi sarebbero saltati addosso con la solita accusa di "materialista storico anticlericale". La dedica a Gramsci deriva invece dalla mia curiosità per il segretario fiorentino: è stato grazie a lui che ho scoperto il vero Machiavelli, ben distante da quello meramente cinico che ti fanno studiare nelle antologie scolastiche.

—È singolare che uno scrittore del tuo calibro aspetti un invito dell’Arcigola, per presentare il suo nuovo libro in Italia...
—Viviamo in un'epoca di cambiamenti radicali. Esiste una religione laica che si chiama calcio, ed attendo con ansia che ad essa si aggiunga al più presto un’altra forma di culto laica: la gastronomia. L'Arcigola è la setta culturale più simpatica che conosca, e per questo ne sono diventato socio fondatore. È un movimento che esalta il piacere più innocente, quello di mangiare.

—Sei sempre riuscito a mantenere un eclettismo artistico invidiabile. O Cesare o nulla è solo l'ultimo di tanti romanzi in cui non compare Pepe Carvalho. Per non parlare dei saggi, delle raccolte di racconti, delle poesie. Vuoi ripercorrere la tua carriera?
—Ho iniziato scrivendo saggi, accanto ad alcune raccolte di poesie. Mi sono occupato della comunicazione nell'era dei mass media e del recupero della cultura popolare spagnola attraverso le canzoni, i sentimenti, le feste perdute: una sorta di rivisitazione del "comune sentire spagnolo" al tempo della dittatura franchista. Poi ho scritto romanzi sperimentali, di avanguardia, come Manifesto subnormale, che è stata la mia prima opera tradotta all'estero.

—Nel 1972 è arrivato Carvalho.
—Sì. È nato tutto per gioco. Volevo scrivere una cronaca ludica della transizione. Quando parlo di "transizione" non mi riferisco solo a quella spagnola, ma a tutto il panorama europeo. Credo che Pepe Carvalho sia il cronista del passaggio dagli anni '60, pieni di aspettative e di speranze laiche, ai nostri giorni, popolati da uomini senza futuro. Il genere poliziesco, che all'inizio mi stava stretto, ha finito con lo sposarsi con l’aspetto "esploratore" di Carvalho: la poetica del poliziesco è fatta di scontri, di delitti, ed è quindi esasperatamente tragica da descrivere perfettamente la nostra società. È un atteggiamento simile a quello di Sciascia o Kafka: il poliziesco come punto di partenza per un "grande romanzo politico contemporaneo".

—Pepe Carvalho è noto per le doti culinarie e per accendere il fuoco con i libri della sua biblioteca. Il paradosso è che il detective rende rivoluzionario un gesto emblema della tracotanza nazifascista.
—C’era già un precedente democratico, il Nobel Elías Canetti. Carvalho sostiene che la letteratura non gli è stata di nessun aiuto e che anzi l'ha illuso. I libri hanno creato un filtro tra lui e la realtà, impedendogli di sapersi rapportare con la vita concreta. Io, come scrittore, quando faccio bruciare un libro a Carvalho, ho un'intenzione molto più ludica: a volte è una vendetta contro uno scrittore che non mi piace, altre volte è un omaggio, altre ancora un'irrisione. Quando Carvalho brucia Engels, irride il marxismo; se ad ardere è il Don Chisciotte l'ironia è diretta agli Accademici della Lingua; un fuoco acceso con una Bibbia del neo-liberalismo, teologia oggi dominante, sarà invece una chiara presa di posizione nei confronti di un'idea non condivisa da Carvalho.

—Ed i romanzi storici?
—Ogni tanto sento il bisogno di recuperare la mia libertà compositiva. Non volevo diventare schiavo del personaggio Carvalho. Quasi tutti i libri che ho scritto senza che vi comparisse Pepe sono una difesa del recupero della memoria storica, da Il pianista ad Io, Franco, da Galíndez a Gli allegri ragazzi di Atzavara.

—Dove si colloca O Cesare o nulla?
—Sembra un romanzo a parte, ma di fatto è la mia ennesima riflessione sul potere, o per meglio dire sulle vittime del potere. È una mia tematica ricorrente, se non addirittura fissa. Ho sempre cercato di costruire un "paesaggio umano" popolato da persone vinte: con O Cesare o nulla ho guardato il panorama non dalla parte degli sconfitti, ma da quella dei detentori del potere.

—Per concludere, una "domanda fatua", come direbbe Guccini: come va il tuo Barcellona nell'era Van Gaal?
—Una schifezza. Sta trapiantando il suo Ajax nel mio Barça. È tutto molto triste.


Ancora su O Cesare o nulla:

1) Articolo di Antonio Gnoli

2) Intervista su l'Unità

3) Intervista su Specchio

4) Chi sono i Borgia