M.V.M.

Creato il
3/12/97.


Carvalho e i ristoranti di Barcellona


Non solo paella

MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN

Sette, 18 / 4 / 1992.


Si mangia!
(Foto Hado Lyria).
L'unico modo per razionalizzare lo Stato spagnolo nato dalla transizione fu di convertirlo in uno «Stato delle autonomie», denominazione di scienza politica leggera che non obbliga ad assumere eccessive sovranità nelle parti rispetto al tutto.
Come ogni Stato che sia passato attraverso periodi eccessivamente centralisti, quello spagnolo deve pagare il prezzo della confessione del suo incerto unionismo tanto nella lingua in cui si parla quanto nella lingua in cui si mangia. Un nazionalista catalano, il signor Ferrán Agulló, prima della guerra civile disse che la Catalogna era una nazione perché aveva una storia, un diritto, una lingua e... una cucina. Lì volevo arrivare. La cucina spagnola non esiste. Esistono cucine regionali o nazionali frutto, nel corso del tempo, della relazione culturale tra fame, risorse e fantasia. Anche se questa relazione, oggi, può essere compromessa dal supermercato.
Parliamo tranquillamente di cucina francese e facendolo ci limitiamo a parlare di una selezione di piatti regionali che in tutto il mondo rappresentano una supposta cucina francese. Ma chi si azzarda a fare la selezione? Lo stesso potremmo dire della cucina italiana, il cui semplice enunciato vuole dire tutto senza voler dire niente, e se fossimo obbligati a una selezione rappresentativa arriveremmo a malapena a una mezza dozzina di piatti, metà del Nord, metà del Sud, se non si oppongono le Leghe lombarde. La cucina nazionale immaginaria è in genere creata dalle grandi capitali giacobine, mediante una rete di prestigiosi ristoranti per funzionari, diplomatici, classi benestanti e turisti danarosi. In quei ristoranti si «nazionalizzano» i piatti che vengono dalle diverse cucine regionali, e pochissimi ottengono un posto nella selezione assoluta del palato nazionale.
In Spagna ci sono tante cucine quante autonomie e alcune macchie di culture culinarie che tingono regioni diverse. Qualunque turista frettoloso direbbe che la cucina spagnola è la paella, la tortilla di patate e il prosciutto serrano di maiale iberico di zampa nera, e sono convinto che poche volte avrà mangiato una vera paella, o una tortilla di patate che si avvicini, sia pure in modo approssimativo, all'idea platonica della tortilla di patate.
Nel Nord cantabrico ci sono due cucine molto interessanti culturalmente opposte: la galiziana, basata sulla bontà della materia prima assai poco modificata dal cuoco, e la basca, cucina sofisticata, con eccellenti umidi di baccalà come il geniale «baccalà al pil pil», di frutti di mare come il «xangurro», o minestre assolutamente memorabili che possono utilizzare come materia prima il tonnetto, il baccalà o i semplici fagioli combinati con i più vari pezzetti di carne. Questa scarsa enumerazione va completata con l'informazione che il Paese Basco dispone del più alto livello medio di ristorazione, sia di eccellenza sia popolare.
A seguire dal Paese Basco, lungo la falda dei Pirenei si apprezzino le cucine navarrina e aragonese, con gli ortaggi più presenti che nel Paese Basco ma senza l'altezza d'immaginazione dei piatti baschi fondamentali. Sono cucine solide nelle quali peperone e salsiccia introducono bouquet rotondi. Nelle valli pirenaiche di Navarra e Aragona c'è una buona cucina di caccia e della densa minestra d'inverno. Quando si arriva in Catalogna si scopre una cucina con resti archeologici dell'agrodolce medievale (alla maniera di alcuni piatti di Toscana), molto immaginativa nell'Ampurdán, regione di mare e terra che ha prodotto una cucina di mare e terra, a volte di un barocco tanto carico come quello che si trova nel piatto «El niu» (il nido), deliziosa colla composta di baccalà diversi. La Catalogna, come il Paese Basco, le Asturie o la Galizia, ha un'eccellente cultura del pesce al forno o alla griglia, con un saperci fare tutto speciale che evita quei pesci rinsecchiti e infernali che tanto tradiscono la logica di altre cucine mediterranee. Attraverso Barcellona, come porta d'Europa, la Catalogna è andata incorporando altre cucine europee, soprattutto quella francese e quella italiana, dalla fine del XVIII secolo. Tornava così, come un boomerang, una cucina mediterranea che la Catalogna aveva incominciato a codificare nel XV secolo, quando comandava a Napoli e alla corte di re Alfonso V agiva un cuoco come Rubert de Noia, autore di uno dei primi trattati di cucina rinascimentale. La pasta italiana arrivava fino alla nascente borghesia barcellonese di fine XVIII e con essa il parmigiano che già allora era formaggio complementare e apprezzato.
Pure in Catalogna si inizia una macchia culinaria, quella dei risi, specialmente risi al tegame, di mare e montagna, talvolta un po' brodosi, che arrivando a Valencia daranno luogo allo sproposito di cento e cento ricette di risi diversi che vanno dalla paella campagnola originale (pollo, coniglio, lumache e prodotti dell'orto) al barocco del «riso con crosta di Elche» (località in provincia di Alicante): tegame di riso con carni diverse, insaccati e frattaglie di pollo, coperto con uovo sbattuto e finalmente messo in forno.
Murcia segue le tracce della cucina di Valencia, corretta con spezie di memoria araba come il cumino e con una sviluppatissima tavola di ortaggi, così come con l'apporto di un riso splendido, «el caldero», ottenuto grazie a un denso brodo di pesci di roccia. È pure di Murcia la formula originale del pesce al sale, primitiva «papillote» (cioè cotta al cartoccio) che nell'antichità si applicava allo stesso modo a pesci e agnelli, cotti al forno coperti di sale grosso.
Da Murcia si passa all'Andalusia, dove si fondono cucine reali e altre che vanno recuperandosi dalla soffitta della memoria araba. L'Andalusia è la terra del pesce fritto, del gazpacho estivo, delle minestre immaginose di un popolo povero, con la menta e il cumino come aiutanti del palato... ma conserva pure, nella sua memoria, una cucina araba che incomincia a essere riscattata dalla critica e dai ristoratori e che può dar luogo a piatti veramente squisiti, come l'agnello cotto col miele di rosmarino.
Dall'Andalusia si può passare all'Estremadura, terra di guazzetti d'agnello, di intingoli di capretto, di salumeria portentosa e immaginativa, perché l'Estremadura è sempre stata terra povera e ha dovuto mettere in pentola molta immaginazione.
Questa salita attraverso l'Estremadura bisogna terminarla per completare il circolo a León, la cui cucina partecipa di usi castigliani per l'agnello e della cultura del maiale che le viene dalla Galizia e dalle Asturie. Una cucina fondamentalmente invernale, come si addice a terre fredde che dovevano sopravvivere con scarse comunicazioni.
Per via di questo percorso periferico, abbiamo lasciato in mezzo un immenso cerchio nel quale incontreremmo diverse cucine singolari.
Quella de La Rioja, metà navarrina e metà aragonese, per sempliflcare; quella di Castiglia, prima chiamata la Vecchia e oggi legata amministrativamente a León, sebbene culinariamente abbia conservato la sua peculiarità; e finalmente la Mancia, con Madrid da considerare come caso a parte.
Castiglia la Vecchia si difende con la sua gran tradizione di arrosto d'agnello, di tecnica impeccabile e irripetibile, e lo stesso può dirsi degli arrosti di lattonzolo di maiale che sono al punto giusto quando possono essere tagliati con l'orlo di un piatto. La Mancia riunisce i gazpachos invernali, piatto talmente di origine romana che si mangia direttamente in torte di farina appoggiate sul legno della tavola, nelle quali entrano i più diversi umidi di ortaggi e caccia. Sono pure manceghe le migliori «migas», o frittate al pane, di Spagna, piatto povero, antico e succulento, fatto con briciole di pane secco, bagnato, scolato e fritto, da combinare con prodotti del maiale o con vegetali o entrambi.
Su per la Mancia, al nord di Madrid, si incontra un piatto eccezionale, «el morteruelo», un pâté ottenuto con le carni bollite dell'antica «olla podrida castellana», un pot-au-feu da superproduzione in technicolor nel quale si cuocevano lepri, vacca, montone, maiale, gallina, pernici...
Madrid ha sì e no una cucina propria, benché rivendichi piatti come il «pollo en pepitoria» cotto con un miscuglio di aromi, il «cocido» e la «tortilla del Tío Lucas». I «cocidos» (pot-au-feu) hanno tante varianti quante sono le autonomie locali, anche se il madrileno, il catalano e il galiziano sono i più presenti nella memoria del palato collettivo. Ciò che invece Madrid è stata davvero è la vetrina delle altre cucine autonomiche, soprattutto la galiziana e la basca e, in questi giorni di capitale postmoderna, si vanta della sua apertura alla cucina peruviana, libanese, caraibica, cinese... cioè alla cucina globale del villaggio globale.
Insieme alla varietà delle sue cucine, la Spagna nasconde quella dei suoi insaccati ben conosciuti da noi indigeni, e i suoi formaggi poco conosciuti e apprezzati dagli indigeni in genere. Poi ci sono i vini, che però sono da bere e non da mangiare e richiedono altro trattamento. Per ora e come avviso ai naviganti: quando arrivate in Spagna, toglietevi l'occhiata giacobina e andate di regione in regione sorprendendovi davanti alla combinazione gastronomica rinata tra la memoria del passato e il desiderio culturale della sorpresa.


Carvalho e i ristoranti di Barcellona